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Novembre,15,2024

MASSIMO TROISI, VENTICINQUE ANNI FA LA MORTE DI UN GRANDE ATTORE

Totò, l’immenso Totò, ne aveva fatto una cifra identitaria, la linea di confine secondo cui un interprete diventa un vero attore. Quella fame antica, “celebrata” fin dai tempi della Commedia dell’Arte, è mutata profondamente nel Novecento. Il Dopoguerra e gli Anni Settanta ne hanno spostato il centro dalla ricerca del pane alla ricerca di comunicazione, alla necessità di essere compreso, capito o, semplicemente, ascoltato. Gli sketch di cabaret di Troisi esprimono questa condizione, attraverso quel riso amaro che soltanto i grandi artisti napoletani hanno saputo scatenare. Dal teatro e dall’avanspettacolo Troisi è poi passato al piccolo schermo. Tappa obbligata, per un predestinato come lui (da neonato fu scelto come testimonial per una pubblicità del latte in polvere). Con Lello Arena ed Enzo Decaro, La Smorfia approda anche in prima serata, diventando un fenomeno nazionale. Il pubblico era già avvezzo alla lingua teatrale di Eduardo e al napoletano “sporadico” di Totò, quindi non ebbe difficoltà a tuffarsi nei turbinii vernacolari del trio partenopeo. Il debutto nel mondo del cinema era solo questione di tempo. Arrivò negli Anni Ottanta grazie all’ammirazione suscitata nel produttore Mario Berardi, il quale diede all’attore (e regista) carta bianca per realizzare quel film che nel 1981 tutti conobbero col titolo Ricomincio da tre. Il linguaggio cinematografico fu giudicato “elementare” dalla critica (inquadrature fisse, pochi movimenti di macchina, regia didascalica). Ma il messaggio, quello arrivò dritto allo stomaco. Anche grazie alle risate, certo, ma soprattutto per la sua volontà indomita e goffa di antieroe e antiemigrante. Un novello Don Chisciotte in lotta contro gli stereotipi “a vento” diffusi nello Stivale, ma allo stesso tempo intimorito dallo sconvolgimento dei valori tradizionali, sulla scia del terremoto sociale suscitato dall’emancipazione femminile. Con Non ci resta che piangere, Troisi dipinge di disincanto la denuncia sociale e politica. Il 1492, la scoperta dell’America come atto zero del genocidio dei nativi, la rivoluzione spietata di Savonarola: ancora una volta il ponte fra due epoche lontanissime tra loro è l’incomunicabilità tra gli esseri umani. Benigni e Troisi si destreggiano tra paesaggi verdeggianti ed equivoci verbali, ma sbagliano tutto: Benigni, maestro elementare, vede crollare il mito del giorno della partenza di Cristoforo Colombo. La data che ha sempre conosciuto si è rivelata errata, l’umanità gliel’ha comunicata male per secoli. La storia, l’uomo non sono quello che sembrano. E arriviamo al testamento spirituale, all’ultimo atto, nel cinema come nella vita, della parabola di Massimo da San Giorgio a Cremano: Il Postino. Le parole, così vulnerabili all’incomprensione, sono il linguaggio con cui l’anima disegna il reale. La poesia di Pablo Neruda (interpretato da Philippe Noiret) appare assai più intellegibile dell’italiano corrente e perfino del dialetto a un pescatore prestato al mestiere di portalettere. Non importa quale lingua parli, puoi esprimerti e capire chiunque. Un messaggio potentissimo, veicolato da due occhi nerissimi e malinconici. Niente poteva commuovere più di quello sguardo tremendo e semplice, di quegli occhi nell’istante in cui sembrano sciogliersi. E invece a sciogliersi sono i nostri.]]>

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