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Marzo,29,2024

LE PREGHIERE DEI MONACI FLORENSI A GIOACCHINO DA FIORE*

I monaci florensi, nel giorno della festa liturgica di Gioacchino da Fiore, dedicavano al fondatore del loro ordine l’Antifona alle Lodi, l’Antifona ai Vespri e l’Orazione.

Con una straordinaria rappresentazione della spiritualità dell’abate, i monaci così recitavano l’Antifona ai Vespri:

Il Beato Gioacchino di Spirito profetico dotato,

decorato di intelligenza, lontano da errori di eresia,

predisse gli eventi futuri.

Il Signore lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza

E lo ha rivestito di una stola di gloria.”

Nell’Antifona alle Lodi venivano ricordate le doti umane del grande teologo della storia:

“Beato Gioacchino, primo Abate florense, umile ed amabile,

fu ammirato per cose meravigliose.”

Nell’Orazione i monaci tramandavano il racconto della visione di Gioacchino durante il suo viaggio in Terrasanta ed il dono ricevuto della intelligentia spiritualis:

O Dio, che sul monte Tabor hai manifestato la tua gloria ai tre Apostoli,

 e nello stesso luogo hai rivelato al beato Gioacchino la verità della Scrittura, ti preghiamo,

 per i suoi meriti e la sua intercessione, fa che ascendiamo a Colui che è via, verità e vita.

 Per Cristo nostro Signore”.

Possiamo ricostruire la complessa vicenda umana, esistenziale, culturale, spirituale e religiosa di Gioacchino da Fiore grazie a importanti fonti: le biografie, le sue opere, l’esame antropologico ed endoscopico del corpo, i documenti delle Abbazie di Corazzo e di San Giovanni in Fiore.

Le fonti narrative sono rappresentate dalla “Vita beati Joachimi abbatis ” raccontata entro il 1209 da un Anonimo monaco della prima generazione florense,  dalla “Synopsis virtutum ” scritta da Luca di Cosenza prima del 1224, dai “Miracula ” raccolti entro il 1346 per testimoniare alla Santa Sede i miracoli dell’Abate florense.

Nel 1598 Cornelio Pelusio e nel 1612 Giacomo Greco trascrissero da un antichissimo manoscritto, custodito nell’archivio dell’Abbazia di San Giovanni in Fiore, la Vita ed i Miracoli di Gioacchino, fortunatamente prima che il “vetustissimus chyrographus ” andasse perduto.

L’intellettuale cosentino Domenico Martire, nella seconda metà del XVII secolo,  scrisse la “Vita del Beato Gioacchino di Celico” e la inserì nella sua opera “La Calabria sacra e profana“. Martire utilizzò un codice che probabilmente era una copia meglio conservata e più completa del manoscritto custodito a Fiore. Mettendo insieme il racconto di Martire e quello di Pelusio, si ottiene una narrazione completa della vita dell’Abate.

Le opere. L'”Epistola prologale“, la Lettera testamentaria scritta da Gioacchino nel 1200, cita le tre opere principali (Psalterium decem chordarum, Concordia Novi ac Veteris Testamenti ed Expositio in Apocalypsim) alle quali l’Abate lavorò parallelamente per parecchi anni. Le opere maggiori e minori, oltre a tracciare il percorso dottrinale, offrono testimonianza di elementi biografici che consentono di tessere le linee fondamentali delle esperienze culturali e religiose del fondatore dell’ordine florense.

L’esame antropologico, radiologico, endoscopico, paleopatologico e paleonutrizionale dei resti scheletrici di Gioacchino da Fiore, compiuto nel 1998 e documentato in una pubblicazione, ha consentito l’acquisizione di ulteriori informazioni e conferme sullo stile di vita e sulla struttura fisica dell’abate calabrese.

I documenti dell’Abbazia Florense custoditi nell’archivio dei monaci (le Bolle papali e i decreti di  indulgenza per i visitatori della chiesa di Gioacchino; i diplomi imperiali ed i privilegi reali; le esenzioni fiscali e le  concessioni di diritti; le donazioni di territori, miniere, saline, case e terreni; le platee compilate nel 1533, nel 1576 e nel 1662 con l’analitica registrazione dei fondi appartenuti al cenobio florense ) furono catalogati da don Isacco Bongiovanni, archivista del monastero negli anni ’70 del sec. XVIII, e trascritti nell’ “Indice di tutte le scritture e privilegi ch’esistono nell’Archivio di San Giovanni in Fiore” dal Regio Uditore Nicola Venusio fra il 1771 e il 1777. I fondi archivistici subirono  indebite sottrazioni e notevoli dispersioni, ma non furono completamente distrutti poiché grande parte della documentazione è riemersa in una Biblioteca di Matera.

Questi preziosi manoscritti rappresentano un  tassello significativo non solo per la ricostruzione dei rapporti di Gioacchino con il Papato e l’Impero ma anche per la storia dell’Abbazia Florense e del suo rapporto con le decine di monasteri – calabresi, lucani, pugliesi, campani, laziali e toscani – dipendenti dall’ordine florense nel periodo di massimo splendore della congregazione gioachimita; ci permettono, inoltre, di seguire le vicende dell’abbazia e dei nuclei demici circostanti fino al periodo di Carlo V; ci consentono di capire le vicende della “novella terra di S. Giovanni in Fiore”, la sua organizzazione sociale, economica e politica, l’evoluzione demografica del Casale e gli aspetti della vita quotidiana.

Proprio da alcune di queste fonti, possiamo apprendere che il 30 marzo 1202, nei primi Vespri della Quinta Domenica di Quaresima, alla presenza di numerosi monaci e  degli abati di Corazzo, della Sambucina e di Santo Spirito di Palermo, “nel sabato in cui si canta il Sitientes, gli fu concesso – scrive Luca di Cosenza nella Synopsis virtutum” – di non avvertire alcun dolore per la conclusione della sua vita mortale e, raggiunto il vero sabato, di affrettarsi come cervo alle sorgenti delle acque“.

“Piacque infine ai suoi figli, che aveva lasciato come successori del suo magistero, trasferire la tomba di tanto padre a Fiore, ove egli riposasse sino al suono della tromba  in un cenotafio per lui preparato”, racconta Giacomo Greco nella Chronologia del 1612.

Entro il 1226 le reliquie di Gioacchino vennero traslate da San Martino di Canale nella nuova chiesa abbaziale di San Giovanni in Fiore e collocate nella cappella di destra del transetto, intitolata alla Vergine, in una tomba terragna.

Questo nuovo complesso abbaziale, costruito più a valle tra il 1195 ed il 1234 in località Faraclonio o Faradomus, presso la confluenza dei fiumi Neto ed Arvo, dopo la distruzione del protocenobio di Jure Vetere divenne la casa madre dell’ordine florense e ne ereditò il nome.

Sul sepolcro di Gioacchino fu inciso il distico iniziale di un inno, il cui seguito è andato perduto, di Pietro di Matera:

                                       Hic Abbas Floris                                                                                                             coelestis gratia roris

(Questi è l’Abate di Fiore, grazia di rugiada celeste).

La tomba di Gioacchino da Fiore fu venerata per oltre quattro secoli e tanti miracoli vi si verificarono. Nel 1346 i monaci florensi curarono una raccolta dei miracoli e nel 1614 Giacomo Greco li trascrisse in un manoscritto (“I miracoli operati, con l’aiuto di Dio, dal venerabile abate Gioacchino, fondatore dell’Ordine florense, raccolti da fra’ Giacomo Greco di Scigliano, teologo, e conservati nella biblioteca del monastero di San Giovanni in Fiore”).

Il verso “Beatus Joachim, spiritu dotatus prophetico”, cantato dai monaci nell’Antifona ai Vespri e conosciuto da Dante, riecheggia nel XII canto del Paradiso, nell’immortale terzina di presentazione dell’Abate di Fiore:

…..lucemi da lato  

il calavrese abate Gioavacchino

di spirito profetico dotato.

Gioacchino e Dante sono accomunati dalla visione critica della Chiesa del loro tempo, che si era lasciata invischiare da interessi economici e politici furvianti. Per Gioacchino e Dante la Chiesa deve fondare la Pace sulla Giustizia e la Giustizia sulla Carità.

I messaggi di Gioacchino da Fiore e di Dante Alighieri, nelle fasi storiche di sonno della ragione, risuonano di monito e di attualità, ridisegnano la speranza nel risveglio delle coscienze e nel rinnovamento civile e religioso dell’umanità.

*Riccardo Succurro

Presidente Centro Internazionale

di Studi Gioachimiti

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