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Novembre,23,2024

"SONO UN MORTO CHE CAMMINA", PARLA UN PENTITO DI MAFIA

“Diciamoci la verità, io sono un morto che cammina… Il fratello del collaboratore che è stato ammazzato a Pesaro è solo il primo. Temo un effetto domino. Oggi, domani, o tra un mese, potrei essere ucciso anche io. O un mio familiare. Perché non siamo protetti. E se continua così, tanto vale tornare in Sicilia, senza alcuna protezione”. E’ molto amareggiato, e spaventato, il collaboratore di giustizia, ex mamafioso di Bagheria (Palermo), che oggi vive con la sua famiglia in una località protetta del Centro Nord. Preferisce restare anonimo perché, come sottolinea in una intervista all’Adnkronos, ha mantenuto la sua vera identità “e non voglio essere riconosciuto per non rischiare la vita mia e della mia famiglia”. L’omicidio di Marcello Bruzzese, il 51enne originario di Rizziconi assassinato la sera di Natale a Pesaro e fratello del collaboratore di giustizia Biagio Girolamo, non sorprende, però, l’ex picciotto di Cosa Nostra. “No, non sono affatto sorpreso – spiega il pentito di mafia, seguito dall’avvocato palermitana Monica Genovese – Prima o poi sarebbe accaduto”. Sotto protezione è solo un modo di dire – spiega – perché nessuno di noi collaboratori di giustizia, con i suoi familiari, è realmente protetto. Io sono in una località segreta, è vero. Ma senza alcuna scorta, o un’auto che passa davanti casa mia. Sulla villetta, in periferia, c’è scritto il mio nome e il mio cognome”. Ma perché ha mantenuto la vera identità e non l’ha cambiata, come hanno fatto molti altri collaboratori prima di lui? “Me lo hanno consigliato gli stessi funzionari del Servizio di protezione – dice – perché anche per avere i contributi lavorativi sarebbe stato un problema in futuro. O per l’iscrizione a scuola di mio figlio”. “Più che un servizio di protezione, sono un servizio di posta, perché portano la posta – purtroppo è la verità. Non siamo protetti. Portano solo le notifiche…”. E racconta quanto accaduto ai primi di dicembre, quando la coppia viveva con il figlio di sette anni in un altro luogo segreto, più a Nord. “Purtroppo, per colpa di una dirigente scolastica poco attenta – dice il collaboratore di giustizia – che ha raccontato alle maestre e al personale di segreteria chi eravamo e che sono un pentito, il Servizio di protezione centrale è stato costretto a farci andare via nel giro di pochi giorni. Con tutte le conseguenze per il bambino che da quasi un mese non va a scuola e si chiede perché”. Ma cosa è successo a scuola? A raccontarlo è la moglie del collaboratore, che ha seguito il marito in questo percorso di collaborazione con la giustizia. “La dirigente non avrebbe dovuto svelare a nessuno la nostra vera identità – dice la madre del piccolo – invece, lo ha detto a quasi tutto il personale. Dicendo loro di ‘stare attenti’ perché c’era mio figlio in quella scuola. Inoltre, il nome di mio figlio era stato tolto dal registro. E il bimbo si chiedeva perché non c’era mai il suo nome. Prima dell’Immacolata ci hanno avvertito che avremmo dovuto cambiare subito località segreta. E ora viviamo in una villetta in periferia, in mezzo alla campagna”. “Se prima mio figlio faceva poche decine di metri per andare a scuola – racconta il collaboratore – oggi ne deve fare quasi sette di km. Io la mattina per accompagnare mio figlio a scuola devo prendere l’auto e portarlo dalla periferia a scuola. E nel tragitto mi potrebbero uccidere, esattamente come hanno fatto con quel signore a Pesaro. Vediamo come andrà con i compagnetti appena ricomincia la scuola. In quell’altro istituto si era inserito benissimo. Aveva tanti amici con cui giocare. Adesso si deve ricominciare. Per colpa di una dirigente poco attenta, diciamo così… Il piccolino è turbato, ha perso tutti i suoi amichetti. “Quindi, quando mi sposto dalla città per andare a un processo a fare la mia deposizione – dice il pentito – mi vengono a prendere e mi scortano fino a Milano o in altre città. Se devo accompagnare mio figlio a scuola sono solo e potrebbero uccidermi senza che nessuno vede nulla”. E poi, il collaboratore di giustizia, ribadisce: “Qui chiunque può farmi quello che vuole, esattamente come è accaduto al fratello del pentito di Pesaro. Proprio perché siamo tutti senza scorta, senza protezione. La protezione non esiste. Se io vado a Roma e incontro un bagherese che mi vuole ‘punire’, mi può uccidere tranquillamente. Tanto non ho alcuna protezione”. E tornando a parlare dell’omicidio di Pesaro, dice: “Dopo questa notizia, penso che solo in pochi decideranno di collaborare. Anche perché molti avranno paura di parlare con i magistrati. Il servizio di protezione deve cambiare radicalmente. Io sono sicuro che se fossi nel mio paese sarei più ‘tranquillo’, perché mi conoscono. Sanno che sono ‘sbirro’ e mi lascerebbero in pace”. Il collaboratore si lamenta anche del fatto di avere abitato per quattro anni “in una casa coperta da eternit”. “E ora per il cambio della casa, a causa di quella dirigente, mi hanno tolto parte dell’indennità per pagare qualche danno della casa”. La moglie del collaboratore poi spiega: “Noi in questi anni siamo stati bravi perché non abbiamo raccontato a nessuno la nostra storia – dice – purtroppo abbiamo dovuto anche raccontare qualche bugia, ma perché ce lo hanno imposto quelli del Servizio di protezione, proprio perché non volevano che potessimo avere problemi”. E parlando ancora del figlio, dice: “Gli è stato negato il diritto allo studio. Spero che torni al più presto a scuola, perché a sette anni non è giusto che paghi per colpe non sue, ma di altri. Io ho avuto fiducia nella preside…”. E poi aggiunge, con rabbia: “Io non mi sposto più. La prossima volta torno direttamente in Sicilia”.

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