“Sì, se puede”. L’urlo di obamiana memoria, quel ‘Yes we can’ che nel 2008 portò l’ex presidente degli Stati Uniti al trionfo, si leva altissimo su Plaza Venezuela, il cuore di Caracas. Sono decine di migliaia le persone che ascoltano il capo dell’opposizione e leader dell’Assemblea nazionale Juan Guaidò giurare sulla costituzione, autoproclamandosi presidente ad interim fino a che non ci saranno nuove elezioni democratiche. Passano pochissimi minuti e dalla Casa Bianca arriva l’atteso riconoscimento ufficiale nei confronti di Guaidò: “Nicolas Maduro e il suo regime sono illegittimi – afferma Donald Trump – e il popolo del Venezuela ha fatto sentire con coraggio la sua voce chiedendo libertà e rispetto della legge”. La risposta non si è fatta attendere, con Maduro che parlando dal balcone a una folla di sostenitori annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Usa, dando ai diplomatici americani 72 ore di tempo per lasciare il Paese. “Ci difenderemo a ogni costo”, promette, mentre da Washington il tycoon ricorda come “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Una mossa annunciata quella di Trump: da sempre il presidente americano considera Maduro un usurpatore e un dittatore, mentre il presidente dell’Assemblea nazionale autoproclamatosi leader rappresenta per Washington l’unica figura legittimamente eletta dopo le contestate elezioni politiche nel Paese. Per questo l’amministrazione Usa ha lanciato un appello a tutte le capitali occidentali affinché seguano il suo esempio. Il primo a farlo è stato il Canada di Justin Tudeau, seguito da larga parte dei latinoamericani, anche se in soccorso di Maduro arrivano il Messico e la Bolivia. Per Maduro, 56 anni, al potere dal 2013 quando successe a Hugo Chavez, è decisamente il giorno più lungo, dopo che lo scorso 11 gennaio si è insediato per il suo secondo mandato. E la tensione a Caracas e in tutto il Paese è alle stelle. Una folla enorme oggi si è riversata in strada e solo nella capitale, a seguito degli scontri con la polizia e con la guardia nazionale, si registrano almeno nove morti e diversi feriti. “Resteremo qui finché il Venezuela non sarà liberato”, ha promesso Guaidò dopo il giuramento, chiedendo all’esercito di mollare Maduro e di ristabilire i dettami della Costituzione. Sfidando così il regime in un’escalation che mette in pericolo innanzitutto la sua persona, visti i precedenti di oppositori arrestati, esiliati e addirittura – accusano le associazioni per i diritti umani – torturati. “Gli occhi del mondo sono tutti puntati su di noi”, ha tirato però dritto Guaidò. In rivolta contro Maduro sono soprattutto i quartieri operai di Caracas, quelli che una volta lo sostenevano e che ora, ridotti allo sfinimento da una crisi economica senza fine, si schierano invece col giovane ingegnere industriale di 35 anni, sempre più popolare soprattutto da quando l’ex pupillo di Chavez ha strappato ogni potere proprio all’Assemblea nazionale, nel tentativo di stroncare la sommossa. Assemblea che però è riconosciuta dalla comunità internazionale, così come Guaidò ancor prima che da Trump è stato riconosciuto dal neo presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Intanto dal Palazzo di vetro delle Nazioni Unite, a New York, parte l’appello “Sì, se puede”. L’urlo di obamiana memoria, quel ‘Yes we can’ che nel 2008 portò l’ex presidente degli Stati Uniti al trionfo, si leva altissimo su Plaza Venezuela, il cuore di Caracas. Sono decine di migliaia le persone che ascoltano il capo dell’opposizione e leader dell’Assemblea nazionale Juan Guaidò giurare sulla costituzione, autoproclamandosi presidente ad interim fino a che non ci saranno nuove elezioni democratiche. Passano pochissimi minuti e dalla Casa Bianca arriva l’atteso riconoscimento ufficiale nei confronti di Guaidò: “Nicolas Maduro e il suo regime sono illegittimi – afferma Donald Trump – e il popolo del Venezuela ha fatto sentire con coraggio la sua voce chiedendo libertà e rispetto della legge”. La risposta non si è fatta attendere, con Maduro che parlando dal balcone a una folla di sostenitori annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Usa, dando ai diplomatici americani 72 ore di tempo per lasciare il Paese. “Ci difenderemo a ogni costo”, promette, mentre da Washington il tycoon ricorda come “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Una mossa annunciata quella di Trump: da sempre il presidente americano considera Maduro un usurpatore e un dittatore, mentre il presidente dell’Assemblea nazionale autoproclamatosi leader rappresenta per Washington l’unica figura legittimamente eletta dopo le contestate elezioni politiche nel Paese. Per questo l’amministrazione Usa ha lanciato un appello a tutte le capitali occidentali affinché seguano il suo esempio. Il primo a farlo è stato il Canada di Justin Tudeau, seguito da larga parte dei latinoamericani, anche se in soccorso di Maduro arrivano il Messico e la Bolivia. Per Maduro, 56 anni, al potere dal 2013 quando successe a Hugo Chavez, è decisamente il giorno più lungo, dopo che lo scorso 11 gennaio si è insediato per il suo secondo mandato. E la tensione a Caracas e in tutto il Paese è alle stelle. Una folla enorme oggi si è riversata in strada e solo nella capitale, a seguito degli scontri con la polizia e con la guardia nazionale, si registrano almeno nove morti e diversi feriti. “Resteremo qui finché il Venezuela non sarà liberato”, ha promesso Guaidò dopo il giuramento, chiedendo all’esercito di mollare Maduro e di ristabilire i dettami della Costituzione. Sfidando così il regime in un’escalation che mette in pericolo innanzitutto la sua persona, visti i precedenti di oppositori arrestati, esiliati e addirittura – accusano le associazioni per i diritti umani – torturati. “Gli occhi del mondo sono tutti puntati su di noi”, ha tirato però dritto Guaidò. In rivolta contro Maduro sono soprattutto i quartieri operai di Caracas, quelli che una volta lo sostenevano e che ora, ridotti allo sfinimento da una crisi economica senza fine, si schierano invece col giovane ingegnere industriale di 35 anni, sempre più popolare soprattutto da quando l’ex pupillo di Chavez ha strappato ogni potere proprio all’Assemblea nazionale, nel tentativo di stroncare la sommossa. Assemblea che però è riconosciuta dalla comunità internazionale, così come Guaidò ancor prima che da Trump è stato riconosciuto dal neo presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Intanto dal Palazzo di vetro delle Nazioni Unite, a New York, parte l’appello a fermare ogni violenza.